4 Novembre 2015, Forlì
Da buon pendolare prendo tutti i giorni il treno per recarmi all'università che dista circa 50 minuti da dove abito (tuttavia questi 50 minuti diventano molto spesso un'ora o addirittura un'ora e mezza).
Per il corso di letteratura italiana mi è stato chiesto di leggere un testo che ho trovato molto interessante: Il Pagliaccio e la Filosofia di Maria Zambrano, una delle figure più originali del panorama filosofico del Ventesimo secolo. In questo libricino (che si compone di sole 45 pagine ca.) vengono presentati alcuni tratti fondamentali della figura del clown, accostati ad una profonda riflessione di carattere filosofico.
In primis, il pagliaccio proviene dal dionisiaco, dai circhi e dalle fiere, e fa dunque parte di un mondo basso, nel quale il riso è uno dei pochi momenti di assenza di sofferenza e di dolore. Il pagliaccio appartiene alla terra e condivide la sorte di tutti coloro che guardano i suoi numeri. Il Clown non può evitare di identificarsi con il vagabondo, il povero in canna, colui la quale massima aspirazione è far ridere la gente. Scrive nell'introduzione la traduttrice del testo Elena Laurenzi:
''il pagliaccio non è una figura dalle altezze vertiginose: appartiene alla terra. Recita nella polvere delle strade e delle piazze , o sotto l'umile tenda di un circo. Non guarda il mondo dall'alto, ma sta con la gente , e condivide la sorte di una tormentata umanità facendone materia per la propria arte.''(p.10)
Il pagliaccio abbraccia l'arte del riso inteso come moto dell'anima che scaturisce da una sorta di riconoscimento di intime verità; il riso non ci libera dal pensiero ma, anzi, lo accende. Il sorriso si dimostra lo strumento attraverso il quale il pagliaccio può mettere in scena il dramma della vita umana.
''Esibendo il suo lato ridicolo, offrendosi, il filosofo-pagliaccio mette in scena la titubanza, l'incertezza, l'imperfezione della stessa vita umana, che si muove a tentoni e senza copione''(p.16)
In secundis, il pagliaccio è un essere che ha attuato una vera e propria ''décreation de soi'', ovvero una vera e propria distruzione del proprio io. Il clown porta dentro di sé il vuoto, ed è incapace di adattarsi a quella che normalmente si dice vita. Questi, tenta di piegare il mondo ed i suoi gesti sembrano non seguire un filo logico. Tuttavia, tali gesti non obbediscono alle leggi fisse del mondo di tutti i giorni e, in questo senso, il clown compie una sorta di rivolta verso tutto ciò che lo circonda.
Infine, il pagliaccio può essere accostato al mondo della filosofia ed essere considerato una sorta di filosofo, che inciampa nelle cose vicine perché immerso nel pensiero di quelle lontane. Sia il clown che il filosofo sono ''l'Achille che non può raggiungere la tartaruga''. Entrambi creano una distanza con tutto ciò che li circonda e si muovono in un altro tempo. Compiono un fenomeno di alienazione che, agli occhi degli altri, li fa apparire come degli imbecilli perché creano delle distanze col contesto che li circonda ''nessuno sembra più simile a un imbecille di un uomo che sta pensando''(p.15). Il pensiero è dunque anche uno strumento di libertà. Inoltre, secondo la Zambrano, la vocazione poetica (che sta per l'atto magico del clown) non deve limitarsi all'esclusivo uso retorico degli strumenti linguistici, ma deve descrivere le cose più umili della realtà e tentare di approssimarne una immagine fuggevole nella vita degli uomini. In questo processo, però, la morte presta al pagliaccio la maschera, con la quale egli stesso interpreta la vita.
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